Fabrizio Migliorati
L’equilibrio dell’ostinarsi d’una solitudine. Intorno ai dipinti di Antonio Haupala

Contadino che batte il ferro, 2010, cm 50×60
Figure solitarie. Luoghi popolati da presenze che rimangono estranee e impermeabili le une alle altre, all’altro. In questi spazi vi è l’inverso di un surplus: vi è un deficit, un meno di presenza nonostante la presenza non venga mai meno. La solitudine chiama sempre la meditazione, una certa attività intellettuale o un atteggiamento di attesa: il solitario è colui che pensa o che attende un segno, una chiamata. La figura, sola con se stessa, si obbliga al pensiero, alla riflessione e, di conseguenza, a sentire il proprio corpo, soppesando la propria pesantezza insieme alla propria vita. Un minus, la presenza che stenta ad imporsi: le figure pagano questo movimento. Un contadino batte il ferro, una donna, investita dalla dolce luce solare, offre una vita immacolata avviluppata nella maternità, Anita suona una chitarra dalla quale non pare sortire alcun suono.

Maternità, 2011, cm 80×60

Teiere Cinesi, 2011, cm 40×50
Le figure dipinte si fanno ancora più dipinte divenendo decorazioni di teiere cinesi. Poco importa che siano cinesi, orientali. Queste figure sono figure nella figura, dipinte nel dipinto e obbligate a rimanere, a restare esse medesime, malgrado tutto. Il meno di presenza tocca qui il culmine poiché la presenza svanisce indurendosi nella porcellana, nel corpo del recipiente del tè. Tutte le figure del nostro artista hanno la peculiarità di andare verso questa oggettualizzazione, questa sottrazione di “persona”. Ciononostante, l’evento del divenire oggetti, o forse è più corretto dire, il rischio della trasformazione, è lungi dall’essere una minaccia. C’è solamente una meravigliosa libertà di lasciarsi andare, permettendo al proprio corpo di volgersi in altro, senza mai divenire osceno. Il corpo si lascia scorrere, perdendosi, indurendosi o svanendo dietro ad un soffio. L’ispirazione fa parte da secoli del linguaggio artistico e designa il momento e il sentimento creativo per eccellenza, l’istante che crea l’opera d’arte. Secondo questa idea un dio instilla nell’animo un pensiero, un affetto, e l’uomo diviene traduttore di questa potenza, spossessato da sé ed in piena sua presenza. Ma l’ispirazione è anche quel momento fisiologico di presa d’aria, di acquisizione di energia, quel lungo respiro che gonfia i polmoni a cui segue l’attimo esplosivo, l’espulsione, l’espirazione.

Anita con la chitarra, 2011, cm 60×80
L’ispirazione è tale non perché anticipa qualcosa, quel particolare secondo momento, la sua diastole, ma è poiché è anticipazione compiuta in essa stessa. Essa ha fine e si completa senza residui, senza scie. Non vi sono aloni che rimangono, a dispetto di quelle patine che sembrano essere depositate dal tempo su questi dipinti. Forse dal ricordo. Le opere di Haupala si situano al termine del movimento di ispirazione (o di inspirazione, non vi è differenza), quando il corpo carico d’aria si sospende per un ultimo momento, tremando. Il respiro raggiunge il suo culmine, l’attimo di sospensione del pathos. Un attimo incalcolabile, che svanisce nel momento in cui cerchiamo di trattenerlo, di allungarne i tempi. L’involontario apparire di questo limitare è equilibrio, gioco leggero tra pesi e volumi che accade quasi fosse in sua assenza. Vulnerabile. Dolcezza di un istante di completa offerta.
Fabrizio Migliorati. 2011