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Fabrizio Migliorati

L’equilibrio dell’ostinarsi d’una solitudine. Intorno ai dipinti di Antonio Haupala

Figure solitarie. Luoghi popolati da presenze che rimangono estranee e impermeabili le une alle altre, all’altro. In  questi spazi vi è l’inverso di un surplus: vi è un deficit, un meno di presenza nonostante la presenza non venga mai meno. La solitudine chiama sempre la meditazione, una certa attività intellettuale o un atteggiamento di attesa: il  solitario è colui che pensa o che attende un segno, una chiamata. La figura, sola con se stessa, si obbliga al  pensiero, alla riflessione e, di conseguenza, a sentire il proprio corpo, soppesando la propria pesantezza insieme alla propria vita.
Un minus, la presenza che stenta ad imporsi: le figure pagano questo movimento. Un contadino batte il  ferro, una donna, investita dalla dolce luce solare, offre una vita immacolata avviluppata nella maternità, Anita  suona una chitarra dalla quale non pare sortire alcun suono. Un silenzio che suggerisce una necessaria cautela d’approccio alle opere: afonie che inquietano eppure rilassano. Figure della quotidianità intesa, però, nella sua ricca  banalità e nelle connessioni con i propositi escatologici più profondi. La quotidianità è, spesso, concepita come l’essere presi nelle faccende, nelle commissioni che devono essere sbrigate. Quotidianità povera. A questa logica si oppone un essere intraprendenti, un essere, cioè, presi fra le cose, fra più cose: scegliere e continuamente proporsi  orientandosi verso nuove sfide, nuove avventure. L’essere intraprendenti rompe con la quotidianità classicamente concepita e propone un individuo maggiormente attivo, provocante il suo destino e non attendista (nell’attesa, sia  chiaro, non vi è nulla di negativo). I lavori di Antonio Haupala mostrano una quotidianità che si situa in una posizione mediana tra quelle precedenti ma non interlocutoria. Una quotidianità intromessa. Una dimensione fra  senza essere con. Vi è una resistenza al dialogo che è sia endogena sia esogena al quadro. Opere impossibili da provocare ma fondamentalmente aperte: puro gesto di offerta. Possiamo avvicinarci ai lavori di questa artista con delicato rispetto e, nonostante l’indomita volontà autoptica dell’uomo, essi resistono e non si fanno anatomizzare. Dal dialogo si passa alla contemplazione.
Anche i personaggi raffigurati resistono alla comunicazione interna. Non veri personaggi ma figure che sono in questi quadri senza che la loro presenza sia piena. Un meno di presenza che passa anche dalla resistenza formata dal silenzio,  ostinato e pietroso. Ogni vita raffigurata non ci volge lo sguardo e non lo fa nemmeno verso i compresenti. Non vi sono incontri di sguardi poiché ognuno conduce una vita che lo orienta, insieme al suo sguardo, altrove. I  personaggi resistono ad ogni dialogo  mentre  perdono quietamente  la  loro  presenza. Le  ragazze  al  fiume  sono   monadi autoreferenziali, accostate, vicine, mai veramente amiche. La fisicità si trasforma e la carne pare cristallizzarsi, bloccandosi per un’ultima volta, nell’ultimo istante. Sulla soglia dell’oggettuale. Le figure dipinte si fanno ancora più dipinte divenendo decorazioni di teiere cinesi. Poco importa che siano cinesi, orientali. Queste  figure sono figure nella figura, dipinte nel dipinto e obbligate a rimanere, a restare esse medesime, malgrado tutto. Il meno di presenza tocca qui il culmine poiché la presenza svanisce indurendosi nella porcellana, nel corpo del recipiente del tè. Tutte le figure del nostro artista hanno la peculiarità di andare verso questa oggettualizzazione, questa sottrazione di “persona”. Ciononostante, l’evento del divenire oggetti, o forse è più corretto dire, il rischio della trasformazione, è lungi dall’essere una minaccia. C’è solamente una meravigliosa libertà di lasciarsi andare,  permettendo al proprio corpo di volgersi in altro, senza mai divenire osceno. Il corpo si lascia scorrere, perdendosi, indurendosi o svanendo dietro ad un soffio.
L’ispirazione fa parte da secoli del linguaggio artistico e designa il momento e il sentimento creativo  per  eccellenza,  l’istante  che  crea  l’opera  d’arte. Secondo questa idea  un  dio  instilla nell’animo un pensiero, un affetto, e l’uomo diviene traduttore di questa potenza, spossessato da sé ed in piena sua presenza. Ma l’ispirazione è  anche quel momento fisiologico di presa d’aria, di acquisizione di energia, quel lungo respiro che gonfia i polmoni  a cui segue l’attimo esplosivo, l’espulsione, l’espirazione.
L’ispirazione  è  tale  non  perché  anticipa qualcosa,  quel  particolare  secondo  momento, la sua diastole, ma è  poiché è anticipazione compiuta in essa stessa. Essa ha fine e si completa senza residui, senza scie. Non vi sono aloni che rimangono, a dispetto di quelle patine che sembrano essere depositate dal tempo su questi dipinti. Forse dal ricordo.
Le opere di Haupala si situano al termine del movimento di ispirazione (o di inspirazione, non vi è differenza), quando il corpo carico d’aria si sospende per un ultimo momento, tremando. Il respiro raggiunge il suo culmine, l’attimo di sospensione del pathos. Un attimo incalcolabile, che svanisce nel momento in cui cerchiamo di trattenerlo, di allungarne i tempi. L’involontario apparire di questo limitare è  equilibrio,  gioco  leggero  tra  pesi  e  volumi  che  accade  quasi  fosse  in  sua assenza. Vulnerabile. Dolcezza di un istante di completa offerta.

Fabrizio Migliorati. 2011

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